Cervino - Hervé Barmasse
Grafica moderna.
Le fotografie sono ben posizionate ed aiutano ad orientarsi nella descrizione delle parti dell' ambiente.
Grafica moderna.
Le fotografie sono ben posizionate ed aiutano ad orientarsi nella descrizione delle parti dell' ambiente.
Questo è il secondo libro della serie di Teresa Papavero. L’ho trovato più thriller e avvincente del primo, ma meno divertente e allegro.
Quasi hanno stonato le parti comiche in questo romanzo, accanto a scene macabre e angoscianti riguardanti il serial killer e le torture e abusi subiti dalle vittime indifese.
Tutto nasce quando Teresa Papavero si ritrova uno scheletro in casa durante i lavori di ristrutturazione.
Questo evento porta una nuova paura: e se quel cadavere appartenesse alla madre scomparsa di Teresa?
Da qui inizia un vortice di paura e attentati che metteranno Teresa in serio pericolo.
Con lei ci sarà lo stupido padre e Professore che si dimostra meno geniale di quello che sembra, un nuovo amante/medico legale e la figura intermittente del poliziotto Leonardo Serra, che comparirà raramente e solo nei momenti più provvidenziali.
Sinceramente mi aspettavo più sostegno da parte di Luigina, dato che è la migliore amica di Teresa.
Comunque sia, il romanzo è perfettamente godibile e dalla lettura fluida.
Consigliato!
A Strangolagalli non succede mai niente. Questo è ciò che si dice e Teresa Papavero ha proprio bisogno di questo, di una vita quasi monotona, priva degli abbandoni che l’accompagnano per tutta la vita (prima la madre, poi il suo ragazzo e infine l’intero team con cui lavorava al call center).
C’è solo un piccolo desiderio che vorrebbe soddisfare: avere un compagno o almeno un’avventura sessuale. Proprio con questa idea, decide di iscriversi su Tinder e di conoscere gente nuova.
Mai avrebbe pensato che proprio uno di questi uomini sarebbe stato in vacanza a Strangolagalli e l’avrebbe invitata a cena nella casa vacanza presa in affitto.
Aria condizionata a balla, birra ghiacciata e la serata di Teresa finisce nel bagno dell’uomo in preda a una congestione senza fine… e quando tutto sembra tornato alla normalità e torna dal suo spasimante, cosa succede? Che il belloccio si è spiaccicato sull’asfalto, cadendo dal balcone dal quarto piano.
Tra scene comiche e avventure assurde, Teresa decide di indagare su questo presunto suicidio che per lei puzza tanto di omicidio. In quanto laureata in criminologia ed esperta profiler (ritenuta da tutti solo scema, quando in realtà Teresa è molto di più…) è decisa a trovare il colpevole.
Come se questo non bastasse, si ritrova anche coinvolta nella scomparsa di una donna che è stata sua ospite nel B&B prima di sparire nel nulla!
Divisa tra tutte queste indagini e l’attrazione per il virile poliziotto e l’affascinante reporter di “Dove sei?”, Teresa dovrà farsi in mille per risolvere questi enigmi… possibilmente senza farsi ammazzare!
Bello e divertente!
Ahia! Questo è uno di quei libri che prendi a occhi chiusi dopo aver letto il titolo e soprattutto il sottotitolo: Trovare la felicità sotto l’aurora boreale.
E qui casca l’asino, perché questo libro parla dei paesi nordici e di alcuni loro usi, costumi, leggende, ricette culinarie e sciate, ma di felicità non ne vedo granché.
Appassionata di Lagom, Hygge e della tipica semplicità dei paesi nordici, ma aspettavo un libro su quello, non una lista di domande come “Lo sapevi che la tecnologia bluetooth prende il nome da un re danese? Sai cosa s’intende con il termine findalizzazione? Lo sapevi che se impari una lingua scandinava ne guadagni tre? Lo sapevi che i Roxette sono svedesi?” oppure la lista di ricette culinarie o di libri scritti da svedesi.
Personalmente la delusione è stata altissima.
L’unica cosa che ho apprezzato moltissimo sono state le descrizioni dei paesaggi.
“Che stare all’aria aperta migliori l’umore non è una novità per chi vive al nord. Basta un’uscita sugli sci per ritrovare la pace dei sensi: la brezza polare congela le preoccupazioni, gli alberi ancora spogli sussurrano messaggi di semplicità e anche i pensieri più nuvolosi si disperdono in un soffio.”
Oltre ai vari aneddoti sui paesi scandinavi e qualche curiosità storica, il libro non perde occasione per smuovere gli animi per salvare il pianeta dal riscaldamento globale e via dicendo.
La mia domanda è: ha senso usare proprio i paesi scandinavi per promuovere il green, quando proprio la Norvegia è stata accusata di greenwashing, dato che è il 14° produttore mondiale (e 2° in Europa) di petrolio e si giustifica sostenendo che sta usando proprio i guadagni del petrolio per creare la cosiddetta transizione ecologica? Un vero controsenso, a mio giudizio, e questo mi blocca dal condividere le parole di stima verso il green e Greta Thunberg in stile nordico, che riempiono pagine e pagine di questo libro.
Leggetelo, ma non aspettatevi nessuna felicità sotto l’aurora boreale.
Semplicemente magnifico! Un libro che occuperà sempre un posto privilegiato nella mia libreria.
Letto in un giorno, talmente non riuscivo a staccarmi.
Un libro che parla di botanica (argomento che non mi hai affascinato) e di scienze forensi (un argomento interessante ma di cui so poco). Eppure mi ha tenuto incollata ad ogni pagina grazie alla sua semplicità e ai continui crimini esposti e su come la botanica forense abbia avuto un peso fondamentale nell’individuazione del colpevole.
Gibson fa un excursus storico sulla botanica forense e dalle varie tecniche di investigazione, dallo studio dei legni, ai residui di vegetazione rinvenuti sull’assassino o nella macchina dell’assassino, fino ad arrivare allo studio del DNA degli alberi.
L’autore non si sofferma solo sui delitti e sui casi di avvelenamento da piante, ma si espande anche nella contraffazione e nel commercio illegale di piante e legni (come il palissandro e alcune specie rare di orchidee e piante carnivore), fino alla produzione di piante a scopo di spaccio di stupefacenti.
Con grande rammarico, Gibson ci informa che purtroppo la studio puro della botanica è quasi scomparso nelle università e oggi si studia più l’aspetto genetico e molecolare, piuttosto che quello “vero”.
Con questo libro, Gibson spera di vincere la “cecità alle piante”, ovvero il dare per scontate queste creature, senza renderci conto di quanto possano esserci utili, perché un albero non mente mai, ogni contatto lascia una traccia e ogni particella racconta una storia.
Per quel che mi riguarda, Gibson mi ha aperto gli occhi e non guarderò più una pianta con gli stessi occhi di prima.
Libro straconsigliato.
Un’appassionata di medicina e benessere zen e orientale, non poteva perdersi questo libro.
Yangsheng, ovvero coltivare la vita, nutrendola come si farebbe con un fiore.
Mentre una pianta ha bisogno di acqua, sole e un’ambiente confortevole, noi di cosa abbiamo bisogno per coltivare la nostra vita e farla fiorire?
Secondo Laura Vanni, sociologa e operatrice tuina, abbiamo bisogno di lavorare su 5 elementi: le emozioni, il respiro, l’alimentazione, il movimento e il riposo.
In un mondo occidentale, sempre di fretta e che spinge verso la competizione e l’eccellenza, quel traguardo irraggiungibile che si allontana ogni volta che raggiungiamo in obiettivo, per poi sentire di non aver fatto abbastanza, controllare o gestire le emozioni è sempre più difficile.
Come poter gestire (non annullare, perché ogni emozione ha la sua utilità) rabbia, preoccupazione, invidia, tristezza, sconforto, paura?
Secondo la medicina cinese, ogni emozione è legata a un organo interno (rene alla paura, polmone alla tristezza, milza alla preoccupazione, cuore alla gioia, fegato alla rabbia), quindi è importante entrare in contatto con queste emozioni e saperle regolare in modo che possano venire canalizzate per agire e non per consumarci o farci ammalare.
Anche il respiro è fondamentale e racchiude al vita (iniziamo al vita con un’inspirazione e finiamo di vivere con un’espirazione). Pertanto è importare sentirlo e imparare a respirare in modo da portare energia in tutti gli organi. Laura Vanni mostra alcuni esercizi utili e semplici che possono aiutarci.
Non è un mistero che l’alimentazione e il movimento sono indispensabili per una salute al top, ma l’impronta orientale che dà l’autrice è sicuramente interessante e ci apre a una mentalità diversa e a nuove opzioni che mi hanno stuzzicato.
Il riposo. Indispensabile ma quasi demonizzato nella nostra società. Si dorme sempre meno e male.
Sedici consigli utili per un ristoro naturale e in grado di farci svegliarci la mattina con un sacco di energia.
Da leggere assolutamente.
Piccola Enciclopedia.
Interessante l'approfondimento tecnico della Prima Assoluta - Maestri/Egger.
Ben scritto.
Impressionanti le descrizioni degli eventi atmosferici sul McKinley.
L’autore ci conduce nel cuore della questione palestinese, in seno a una terra contesa e tormentata da molto tempo. L’opera inizia con un’esplosione, essa rappresenta il codice che il protagonista cercherà di decifrare lungo tutto il percorso di ritorno alle proprie radici berbere, in quel deserto abbandonato molto tempo prima per inseguire le proprie legittime aspirazioni. Il passaggio da una posizione di successo, come chirurgo nel miglior ospedale di Tel Aviv, una vita agiata e apparentemente senza nessun fremito, a una straziante deflagrazione della realtà, così ben costruita e protetta, è insopportabile. La moglie, Sihem, a sua volta di origini palestinesi, è l’attentatrice, colei che si è fatta esplodere portando con sé undici persone, anche bambini. Scritto con uno stile narrativo coinvolgente e incalzante, il romanzo riesce a catturare l’attenzione del lettore attraverso un racconto a più voci, quelle dei personaggi che, da un fronte o dall’altro, raccontano la loro drammatiche condizioni, esponendo le ragioni dei loro atti, spinti da una disperazione che non vede soluzioni. Amine, invece, prima paralizzato, inebetito, sconvolto dalla crudezza dei fatti, inizia un percorso di autoanalisi psicologica cercando le ragioni del gesto, setacciando le proprie mancanze, trovandosi, come in uno specchio, davanti alla propria cecità di fronte alle afflizioni del suo popolo. E ripercorre la strada di ritorno al proprio paese, fino alle proprie radici, fino alla distruzione della propria casa, toccando con mano la realtà ma rivendicando, con forza, la sua scelta di essere medico per salvare vite! Il libro lascia aperti diversi interrogativi: quale valore ha la morte in questi paesi? E la vita? Fino a che punto è possibile conoscere le altre persone? La vicenda narrata inizia e finisce con un attentato, sembra non lasciare spazio alla speranza, l’unica possibilità di redenzione per chi vive in Palestina sembra essere un’esplosione catartica. La scelta di Amine però offre un’altra possibilità, quella di trascendere le diatribe, considerando importante ogni vita, degna in ogni caso di essere salvata.
L’autore ci conduce nel cuore della questione palestinese, in seno a una terra contesa e tormentata da molto tempo. L’opera inizia con un’esplosione, essa rappresenta il codice che il protagonista cercherà di decifrare lungo tutto il percorso di ritorno alle proprie radici berbere, in quel deserto abbandonato molto tempo prima per inseguire le proprie legittime aspirazioni. Il passaggio da una posizione di successo, come chirurgo nel miglior ospedale di Tel Aviv, una vita agiata e apparentemente senza nessun fremito, a una straziante deflagrazione della realtà, così ben costruita e protetta, è insopportabile. La moglie, Sihem, a sua volta di origini palestinesi, è l’attentatrice, colei che si è fatta esplodere portando con sé undici persone, anche bambini. Scritto con uno stile narrativo coinvolgente e incalzante, il romanzo riesce a catturare l’attenzione del lettore attraverso un racconto a più voci, quelle dei personaggi che, da un fronte o dall’altro, raccontano la loro drammatiche condizioni, esponendo le ragioni dei loro atti, spinti da una disperazione che non vede soluzioni. Amine, invece, prima paralizzato, inebetito, sconvolto dalla crudezza dei fatti, inizia un percorso di autoanalisi psicologica cercando le ragioni del gesto, setacciando le proprie mancanze, trovandosi, come in uno specchio, davanti alla propria cecità di fronte alle afflizioni del suo popolo. E ripercorre la strada di ritorno al proprio paese, fino alle proprie radici, fino alla distruzione della propria casa, toccando con mano la realtà ma rivendicando, con forza, la sua scelta di essere medico per salvare vite! Il libro lascia aperti diversi interrogativi: quale valore ha la morte in questi paesi? E la vita? Fino a che punto è possibile conoscere le altre persone? La vicenda narrata inizia e finisce con un attentato, sembra non lasciare spazio alla speranza, l’unica possibilità di redenzione per chi vive in Palestina sembra essere un’esplosione catartica. La scelta di Amine però offre un’altra possibilità, quella di trascendere le diatribe, considerando importante ogni vita, degna in ogni caso di essere salvata.
L’autore ci conduce nel cuore della questione palestinese, in seno a una terra contesa e tormentata da molto tempo. L’opera inizia con un’esplosione, essa rappresenta il codice che il protagonista cercherà di decifrare lungo tutto il percorso di ritorno alle proprie radici berbere, in quel deserto abbandonato molto tempo prima per inseguire le proprie legittime aspirazioni. Il passaggio da una posizione di successo, come chirurgo nel miglior ospedale di Tel Aviv, una vita agiata e apparentemente senza nessun fremito, a una straziante deflagrazione della realtà, così ben costruita e protetta, è insopportabile. La moglie, Sihem, a sua volta di origini palestinesi, è l’attentatrice, colei che si è fatta esplodere portando con sé undici persone, anche bambini. Scritto con uno stile narrativo coinvolgente e incalzante, il romanzo riesce a catturare l’attenzione del lettore attraverso un racconto a più voci, quelle dei personaggi che, da un fronte o dall’altro, raccontano la loro drammatiche condizioni, esponendo le ragioni dei loro atti, spinti da una disperazione che non vede soluzioni. Amine, invece, prima paralizzato, inebetito, sconvolto dalla crudezza dei fatti, inizia un percorso di autoanalisi psicologica cercando le ragioni del gesto, setacciando le proprie mancanze, trovandosi, come in uno specchio, davanti alla propria cecità di fronte alle afflizioni del suo popolo. E ripercorre la strada di ritorno al proprio paese, fino alle proprie radici, fino alla distruzione della propria casa, toccando con mano la realtà ma rivendicando, con forza, la sua scelta di essere medico per salvare vite! Il libro lascia aperti diversi interrogativi: quale valore ha la morte in questi paesi? E la vita? Fino a che punto è possibile conoscere le altre persone? La vicenda narrata inizia e finisce con un attentato, sembra non lasciare spazio alla speranza, l’unica possibilità di redenzione per chi vive in Palestina sembra essere un’esplosione catartica. La scelta di Amine però offre un’altra possibilità, quella di trascendere le diatribe, considerando importante ogni vita, degna in ogni caso di essere salvata.
L’autore ci conduce nel cuore della questione palestinese, in seno a una terra contesa e tormentata da molto tempo. L’opera inizia con un’esplosione, essa rappresenta il codice che il protagonista cercherà di decifrare lungo tutto il percorso di ritorno alle proprie radici berbere, in quel deserto abbandonato molto tempo prima per inseguire le proprie legittime aspirazioni. Il passaggio da una posizione di successo, come chirurgo nel miglior ospedale di Tel Aviv, una vita agiata e apparentemente senza nessun fremito, a una straziante deflagrazione della realtà, così ben costruita e protetta, è insopportabile. La moglie, Sihem, a sua volta di origini palestinesi, è l’attentatrice, colei che si è fatta esplodere portando con sé undici persone, anche bambini. Scritto con uno stile narrativo coinvolgente e incalzante, il romanzo riesce a catturare l’attenzione del lettore attraverso un racconto a più voci, quelle dei personaggi che, da un fronte o dall’altro, raccontano la loro drammatiche condizioni, esponendo le ragioni dei loro atti, spinti da una disperazione che non vede soluzioni. Amine, invece, prima paralizzato, inebetito, sconvolto dalla crudezza dei fatti, inizia un percorso di autoanalisi psicologica cercando le ragioni del gesto, setacciando le proprie mancanze, trovandosi, come in uno specchio, davanti alla propria cecità di fronte alle afflizioni del suo popolo. E ripercorre la strada di ritorno al proprio paese, fino alle proprie radici, fino alla distruzione della propria casa, toccando con mano la realtà ma rivendicando, con forza, la sua scelta di essere medico per salvare vite! Il libro lascia aperti diversi interrogativi: quale valore ha la morte in questi paesi? E la vita? Fino a che punto è possibile conoscere le altre persone? La vicenda narrata inizia e finisce con un attentato, sembra non lasciare spazio alla speranza, l’unica possibilità di redenzione per chi vive in Palestina sembra essere un’esplosione catartica. La scelta di Amine però offre un’altra possibilità, quella di trascendere le diatribe, considerando importante ogni vita, degna in ogni caso di essere salvata.
L’autore ci conduce nel cuore della questione palestinese, in seno a una terra contesa e tormentata da molto tempo. L’opera inizia con un’esplosione, essa rappresenta il codice che il protagonista cercherà di decifrare lungo tutto il percorso di ritorno alle proprie radici berbere, in quel deserto abbandonato molto tempo prima per inseguire le proprie legittime aspirazioni. Il passaggio da una posizione di successo, come chirurgo nel miglior ospedale di Tel Aviv, una vita agiata e apparentemente senza nessun fremito, a una straziante deflagrazione della realtà, così ben costruita e protetta, è insopportabile. La moglie, Sihem, a sua volta di origini palestinesi, è l’attentatrice, colei che si è fatta esplodere portando con sé undici persone, anche bambini. Scritto con uno stile narrativo coinvolgente e incalzante, il romanzo riesce a catturare l’attenzione del lettore attraverso un racconto a più voci, quelle dei personaggi che, da un fronte o dall’altro, raccontano la loro drammatiche condizioni, esponendo le ragioni dei loro atti, spinti da una disperazione che non vede soluzioni. Amine, invece, prima paralizzato, inebetito, sconvolto dalla crudezza dei fatti, inizia un percorso di autoanalisi psicologica cercando le ragioni del gesto, setacciando le proprie mancanze, trovandosi, come in uno specchio, davanti alla propria cecità di fronte alle afflizioni del suo popolo. E ripercorre la strada di ritorno al proprio paese, fino alle proprie radici, fino alla distruzione della propria casa, toccando con mano la realtà ma rivendicando, con forza, la sua scelta di essere medico per salvare vite! Il libro lascia aperti diversi interrogativi: quale valore ha la morte in questi paesi? E la vita? Fino a che punto è possibile conoscere le altre persone? La vicenda narrata inizia e finisce con un attentato, sembra non lasciare spazio alla speranza, l’unica possibilità di redenzione per chi vive in Palestina sembra essere un’esplosione catartica. La scelta di Amine però offre un’altra possibilità, quella di trascendere le diatribe, considerando importante ogni vita, degna in ogni caso di essere salvata.
L’autore ci conduce nel cuore della questione palestinese, in seno a una terra contesa e tormentata da molto tempo. L’opera inizia con un’esplosione, essa rappresenta il codice che il protagonista cercherà di decifrare lungo tutto il percorso di ritorno alle proprie radici berbere, in quel deserto abbandonato molto tempo prima per inseguire le proprie legittime aspirazioni. Il passaggio da una posizione di successo, come chirurgo nel miglior ospedale di Tel Aviv, una vita agiata e apparentemente senza nessun fremito, a una straziante deflagrazione della realtà, così ben costruita e protetta, è insopportabile. La moglie, Sihem, a sua volta di origini palestinesi, è l’attentatrice, colei che si è fatta esplodere portando con sé undici persone, anche bambini. Scritto con uno stile narrativo coinvolgente e incalzante, il romanzo riesce a catturare l’attenzione del lettore attraverso un racconto a più voci, quelle dei personaggi che, da un fronte o dall’altro, raccontano la loro drammatiche condizioni, esponendo le ragioni dei loro atti, spinti da una disperazione che non vede soluzioni. Amine, invece, prima paralizzato, inebetito, sconvolto dalla crudezza dei fatti, inizia un percorso di autoanalisi psicologica cercando le ragioni del gesto, setacciando le proprie mancanze, trovandosi, come in uno specchio, davanti alla propria cecità di fronte alle afflizioni del suo popolo. E ripercorre la strada di ritorno al proprio paese, fino alle proprie radici, fino alla distruzione della propria casa, toccando con mano la realtà ma rivendicando, con forza, la sua scelta di essere medico per salvare vite! Il libro lascia aperti diversi interrogativi: quale valore ha la morte in questi paesi? E la vita? Fino a che punto è possibile conoscere le altre persone? La vicenda narrata inizia e finisce con un attentato, sembra non lasciare spazio alla speranza, l’unica possibilità di redenzione per chi vive in Palestina sembra essere un’esplosione catartica. La scelta di Amine però offre un’altra possibilità, quella di trascendere le diatribe, considerando importante ogni vita, degna in ogni caso di essere salvata.
L’autore ci conduce nel cuore della questione palestinese, in seno a una terra contesa e tormentata da molto tempo. L’opera inizia con un’esplosione, essa rappresenta il codice che il protagonista cercherà di decifrare lungo tutto il percorso di ritorno alle proprie radici berbere, in quel deserto abbandonato molto tempo prima per inseguire le proprie legittime aspirazioni. Il passaggio da una posizione di successo, come chirurgo nel miglior ospedale di Tel Aviv, una vita agiata e apparentemente senza nessun fremito, a una straziante deflagrazione della realtà, così ben costruita e protetta, è insopportabile. La moglie, Sihem, a sua volta di origini palestinesi, è l’attentatrice, colei che si è fatta esplodere portando con sé undici persone, anche bambini. Scritto con uno stile narrativo coinvolgente e incalzante, il romanzo riesce a catturare l’attenzione del lettore attraverso un racconto a più voci, quelle dei personaggi che, da un fronte o dall’altro, raccontano la loro drammatiche condizioni, esponendo le ragioni dei loro atti, spinti da una disperazione che non vede soluzioni. Amine, invece, prima paralizzato, inebetito, sconvolto dalla crudezza dei fatti, inizia un percorso di autoanalisi psicologica cercando le ragioni del gesto, setacciando le proprie mancanze, trovandosi, come in uno specchio, davanti alla propria cecità di fronte alle afflizioni del suo popolo. E ripercorre la strada di ritorno al proprio paese, fino alle proprie radici, fino alla distruzione della propria casa, toccando con mano la realtà ma rivendicando, con forza, la sua scelta di essere medico per salvare vite! Il libro lascia aperti diversi interrogativi: quale valore ha la morte in questi paesi? E la vita? Fino a che punto è possibile conoscere le altre persone? La vicenda narrata inizia e finisce con un attentato, sembra non lasciare spazio alla speranza, l’unica possibilità di redenzione per chi vive in Palestina sembra essere un’esplosione catartica. La scelta di Amine però offre un’altra possibilità, quella di trascendere le diatribe, considerando importante ogni vita, degna in ogni caso di essere salvata.